Acqua tradita

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Referendum, giugno 2011: 26 milioni di italiani chiedevano con il loro voto di togliere i profitti dei privati sui servizi idrici. L'acqua deve tornare pubblica. Sono passati quasi cinque anni, ma da allora poco o nulla è andato nella direzione della volontà popolare. Anzi, i governi, sotto la pressione delle lobby, non hanno fatto altro che approvare leggi, decreti che favoriscono le privatizzazioni. Solo una piccola parte di sindaci(tra cui quello di Napoli) sono tornati alle gestione pubblica dell’acqua.

Nel resto del Paese poco nulla è cambiato. Prima il governo Berlusconi, con la Finanziaria, riammise i privati nella gestione dei servizi locali. Poi anche Mario Monti manovrò in direzione contraria al referendum, con il decreto sulle liberalizzazioni. Sulla stessa scia ha proseguito il governoRenzi. Tutto ciò mentre è aumentata la dispersione dell’acqua e le tariffe sono rincarate.

 L’acqua resta dunque la grande questione aperta, che riguarda un bene primario e la nostra democrazia. Emilio Molinari, protagonista di questa battaglia, ex presidente del Comitato italiano per un Contratto mondiale dell’acqua scrive:

La cultura moderna ha perso l’atavico rapporto con l’acqua. L’acqua è stata imbrigliata, inquinata, manipolata, mentre viene ancora negata a miliardi di persone. È mercificata, quotata in Borsa, oggetto di water grabbing. L’acqua è la storia dei conflitti tra coloro a cui tale diritto viene negato e chi se ne appropria: le rive opposte dei fiumi sono ancora il sinonimo di rivale. La modernità non ha fatto un solo passo per renderla un concreto diritto umano universale, né un riconosciuto bene comune. Sarà questo il compito degli umani del XXI secolo”.

Il Forum italiano dei movimenti per l’acqua dal 2006 riunisce comitati territoriali, organizzazioni sociali, sindacati, associazioni e singoli cittadini che si battono per l’acqua bene comune e la sua gestione pubblica e partecipativa. Paolo Carsetti è uno dei suoi animatori.

Qual è lo stato di salute, di qualità, della nostra acqua?

“L’approvvigionamento di acqua di qualità sta divenendo sempre più una criticità, sia per un progressivo inquinamento del suolo e delle falde, sia per la presenza di potenziali situazioni di rischio sui punti di captazione e, non da ultimo, per l’impatto del cambiamento climatico. In alcuni territori si sono trovate nelle acque diverse sostanze nocive in quantità superiori ai limiti di legge (arsenico, trialometani). Ciò è l’effetto di un uso non sostenibile del bene acqua, a partire dal comparto agricolo e industriale che immettono nell’ambiente sostanze che vanno a inficiare irrimediabilmente la qualità della risorsa”.

E quindi cosa dovrebbero fare le istituzioni?

“Dovrebbero implementare i controlli, le campagne di monitoraggio oltre che aggiornare le sostanze da ricercare nelle acque. Il matrimonio tra il ciclo dell’acqua e quello economico porta a violare i limiti dell’uso sostenibile dell’acqua. E poi va stigmatizzata la strumentalizzazione che viene fatta sulla qualità dell’acqua del rubinetto a favore di quella in bottiglia. Una campagna mediatica, di fatto, volta a favorire un’altra faccia della mercificazione di questo bene essenziale”.

Si stima quasi il 40 per cento di dispersione dell’acqua. Ci spiega il perché?

“I dati Istat (2014) ci indicano cifre pari a circa il 37 per cento di dispersione, ma con punte di oltre il 54 per cento in Sardegna. Dati impressionanti e insopportabili. Va aggiunto che le percentuali di dispersione sono in continuo aumento e ciò dipende dal modello prescelto per la gestione del servizio idrico integrato. Modello che si basa sull’affidamento a soggetti di natura privatistica e sul meccanismo di finanziamento del sistema, il cosiddetto principio di full cost recovery, e cioè il caricare sulla tariffa tutti i costi di finanziamento, compresi quelli degli investimenti”.

Questo a cosa ha portato?

“Ciò ha comportato che negli ultimi anni gli investimenti sono drasticamente diminuiti e stanno ben al di sotto di quanto sarebbe necessario. Questo dimostra il perché non si è proceduto all’ammodernamento delle reti come i dati sulla dispersione stanno a ricordare”.

E quindi cosa si dovrebbe fare per evitare questo spreco, questa dispersione?

“Solo un meccanismo alternativo di finanziamento del sistema può garantire gli ingenti investimenti necessari che necessariamente, però, va accompagnato da una ripubblicizzazione dei soggetti gestori. È questo il senso della proposta avanzata dal Forum dei movimenti per l’acqua. Al posto del full cost recovery, occorre costruire un nuovo meccanismo tariffario e ricorrere sia alla finanza pubblica che alla fiscalità generale. La nostra ipotesi prevede che la tariffa copra i costi di gestione prevedendo, comunque, un’articolazione della tariffa sulla base delle fasce di consumo, mentre la fiscalità generale è chiamata a intervenire per coprire il costo del quantitativo minimo vitale (50 litri/abitante/giorno), ovvero il diritto umano all’acqua, e un’altra parte di investimenti”.

Dopo il referendum del 2011, che cosa è cambiato?

“La straordinaria vittoria nel referendum del 2011 ha fatto emergere una volontà popolare che non intende far sottomettere alle logiche di mercato e profitto beni essenziali come l’acqua. Questo esito ha spaventato le lobby economiche e finanziarie che, invece, sull’acqua e i beni comuni intravedono una fonte sicura di profitto, a maggior ragione in un periodo di crisi in cui i consumi si sono ristretti notevolmente. Pertanto si è provato a disconoscerne l’esito referendario fino ad avviare la produzione di una nuova normativa che contraddice la volontà popolare, rilanciando i processi di privatizzazione”.

Ma non crede che per competere con le multinazionali dell’acqua serva la privatizzazione, come sostiene il governo?

“L’obiettivo del governo è quello di costituire dei player nazionali in grado di competere sul mercato globale, favorendo la dismisssione delle quote pubbliche delle aziende che garantiscono servizi pubblici, incentivando la loro fusione e aggregazione. Detto in altre parole: promuovendo la loro privatizzazione. Questi sono gli stessi processi avviati oltre trent’anni fa in altri Paesi europei, come Inghilterra e Francia, da cui si sono sviluppate le maggiori multinazionali al mondo dell’acqua (Suez, Veolia, Thames Water ecc. ecc.). Soprattutto in Francia, da alcuni anni, si assiste a una marcia indietro per cui, a partire da Parigi e Grenoble, sono decine le municipalità che hanno deciso di ripubblicizzare la gestione dell’acqua, non rinnovando le concessioni alle aziende private”.

Come giudica l’operato del governo Renzi sull’acqua?

“Esiste un piano attraverso il quale il governo intende rilanciare con forza il processo di privatizzazione e finanziarizzazione dei beni comuni, compresa l’acqua, soprattutto attraverso la cosiddetta razionalizzazione delle aziende partecipate dagli enti locali, seguendo lo slogan ‘riduzione da ottomila a mille’ e l’incentivo alla dismissione della partecipazione pubblica. Il combinato disposto dei diversi provvedimenti (decreto Sblocca Italia, legge di stabilità 2015 e legge di riforma della pubblica amministrazione) costruisce un meccanismo per cui, attraverso processi di aggregazione e fusione, i quattro colossi multiutilities attuali – A2A, Iren, Hera e Acea – già collocati in Borsa, potranno inglobare tutte le società di gestione dei servizi idrici, ambientali ed energetici, divenendo i ‘campioni’ nazionali in grado di competere sul mercato globale. Ciò si configurerebbe come una reale regressione ai primi del Novecento quando a gestire l’acqua e i servizi pubblici erano pochi monopoli privati”.

Facile chiedere di mantenere l’acqua pubblica ma molti Comuni, strozzati dalla crisi e dalla riduzione dei finanziamenti dello Stato centrale, hanno dovuto cedere l’acqua alla gestione dei privati. Bel dilemma: conta più il bilancio di un Comune o una votazione democratica come il referendum?

“Le politiche monetariste e di austerità sono diventate lo strumento mediante il quale scaricare gli effetti sui cittadini. I vincoli di bilancio diventano prioritari rispetto alla garanzia dei diritti fondamentali. Con la costituzionalizzazione dell’obbligo del pareggio di bilancio si è arrivati addirittura a una formale legittimazione di tale involuzione. Si sono ristretti i parametri del patto di stabilità interno facendo diventare gli enti locali i luoghi sui quali scaricare la crisi. Modificare l’approccio su questi temi diviene indispensabile e quindi non subordinare più la garanzia di diritti fondamentali ai vincoli di bilancio. Ciò è concretamente realizzabile anche senza gravare ulteriormente sulle casse pubbliche ma anche solamente invertendo alcune priorità delle amministrazioni locali che molte volte ragionano più da azionisti privati che da presìdi di democrazia di prossimità”.



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